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Don Steno Santi

Don Steno Santi nacque a Tuscania il 21 novembre 1927. Fu ordinato sacerdote il 26 giugno 1950 e divenne canonico della Cattedrale di Tuscania, ma si stabilì a Viterbo, dove svolse numerosi incarichi: fu prima vicerettore nel Seminario Interdiocesano, dove collaborò con il rettore Mons. Umberto Guidobaldi, poi fu nominato viceparroco di S. Angelo in Spatha infine tornò nel Seminario Interdiocesano come Direttore Spirituale (nomina del 22 settembre 1957), dedicandosi anche all’insegnamento di Religione delle scuole superiori.

Nell’anno scolastico 1971-1972 i vescovi dell’Alto Lazio lo nominarono Rettore del Seminario Regionale di S. Maria della Quercia. Rimase ancora qualche anno a Viterbo, fino a quando il vescovo Mons. Luigi Boccadoro lo destinò a Tuscania, come primo parroco della nuova chiesa del S. Cuore (aprile 1976), sorta in seguito al sisma che colpì la nostra Città il 6 febbraio 1971.

Nel 1984 Don Steno lasciò questa parrocchia per essere trasferito in quella della Cattedrale di S. Giacomo, dove svolse per un ventennio un’intesa attività pastorale. Tra le sue numerose altre attività ricordiamo quella di Vicario Episcopale per i Religiosi, membro del Consiglio Presbiteriale, Direttore dell’Ufficio Catechistico Diocesano, Assistente Diocesano per la Gioventù di Azione Cattolica, maschile e femminile.

Nel silenzio, ad di là degli incarichi ufficiali, Don Steno ha sempre svolto un’intensa attività nella direzione spirituale di moltissimi laici e sacerdoti, che frequentavano periodicamente la sua abitazione.

Il 24 giugno 2000, gli amici vollero festeggiare attorno a lui il suo “Cinquantesimo di Sacerdozio”: “Il 26 giugno 1950 – disse il suo amico di studi Mons. Salvatore del Ciuco – in una giornata inondata di sole, il vescovo Adelchi Albanesi nella magnifica Basilica di S. Pietro, ti ordinava sacerdote di Cristo!…Lo so che tu avresti preferito passare il tuo Cinquantesimo di sacerdozio nel silenzio e nella preghiera, ma questi cinquanta anni non sono solo tuoi: sono le ore e i giorni di un prete. E il prete è di tutti. Tutti noi sentiamo, caro Don Steno, che il tuo sacerdozio ci appartiene…Un lungo fiume di ricordi assale il mio animo in questo momento. Personalmente non finirò mai di ringraziare Dio per aver intrecciato la mia vita con la tua. Dodici anni di studi prima nel seminario interdiocesano, poi in quello Regionale, alla Quercia. Ricordo ancora tuo padre Umberto, la mamma Clara, dei quali ho sperimentato il sorriso e la tenerezza, e al sacrificio dei quali devi se oggi tu sei prete. Come dimenticare la dolce Adonella, tua sorella, e i parenti tutti che ti sono stati sempre vicini con l’affetto e le premure, rendendo più facile il cammino del tuo sacerdozio? Ricordi gli anni meravigliosi trascorsi insieme come educatori nel Seminario di Viterbo? Forse gli anni più belli del tuo e del mio sacerdozio…”.

Don Steno morì all’età di 77 anni, nell’ospedale civile di Narni il 4 ottobre 2004. Nel giorno dei suoi funerali, il 6 ottobre, il Duomo di Tuscania non riuscì a contenere i fedeli che vi convennero per dare l’ultimo saluto al loro parroco. Celebrarono le esequie il vescovo diocesano, Mons. Lorenzo Chiarinelli ed una cinquantina di sacerdoti e diaconi. Il vescovo nell’omelia mise in risalto le doti di Don Steno, sacerdote di profonda spiritualità e generosissimo nell’opera pastorale: “Nei suoi 54 anni di apostolato – evidenziò il vescovo – Don Steno ha dimostrato una spiccata dote di educatore rispettoso, attento ed umile. La Chiesa di Viterbo lo accompagna con la preghiera nel suo incontro con Dio, certa, nella fede, che Don Steno verrà accolto tra le braccia del Padre buono e misericordioso di cui Don Steno era stato ministro credibile e fedele”.

Al termine della celebrazione anche il Sindaco di Tuscania Antonio Peruzzi lesse una testimonianza di stima e di affetto nei confronti di Don Steno, che per tutta la comunità era stato un punto di riferimento per saggezza e ricchezza spirituale. Queste parole furono condivise da tutti i cittadini di Tuscania presenti alle esequie, che con un applauso fragoroso si associarono alle parole del primo cittadino.

Alla morte di Don Steno, tutte le parrocchie del centro storico sono state unificate in un’unica parrocchia, che il vescovo Mons. Chiarinelli ha affidato a Don Alessandro Panzeri.

 

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Mons. Giuseppe Ricci

Mons. Giuseppe Ricci nacque a Tuscania il 18 dicembre 1921. Venne ordinato sacerdote nelle basilica di S. Pietro a Tuscania il 29 giugno 1946 dal vescovo Mons. Adelchi Albanesi.

Per lunghi anni svolse l’attività di Priore della Collegiata di S. Maria Maggiore (SS. Martiri), succedendo nel febbraio 1949 a Don Giuseppe Cupelli.

Qui Don Giuseppe Ricci svolse un intenso apostolato, prima presso l’Oratorio S. Luigi, poi come educatore tra i giovani della locale Azione Cattolica. Promosse varie attività culturali e sportive tra i numerosi giovani che frequentavano il circolo ACLI. Ricordiamo la fondazione di scuole serali negli ambienti della parrocchia ed il sostegno fornito ai giovani nelle discipline sportive, come la pallavolo, l’atletica leggera, ma soprattutto con la creazione della squadra di calcio “Fulgur”, dove Don Giuseppe coinvolse numerosissimi giovani e tecnici sportivi locali.

Il 15 ottobre 1962 il vescovo Mons. Adelchi albanesi lo nominò Delegato vescovile della diocesi di Tuscania.

Trascorse gli ultimi anni della sua vita fungendo da padre a tanti ragazzi ospiti dell’”Istituto Sacro Cuore” di Capodimonte, fondato da Mons. Leopardo Venturini ed a questi succeduto nella direzione dell’Istituto (dicembre 1966). Don Giuseppe continuò l’opera di Don Leopardo, acquistando un altro appezzamento di terreno confinante con l’Istituto S. Cuore per crearvi nuove aule scolastiche per i suoi ragazzi.

Dopo essere stato nominato Monsignore (cappellano di Sua Santità), il 25 maggio 1978 il vescovo lo scelse come vicario generale per la diocesi di Viterbo e Tuscania; e tale incarico svolse fino alla morte, che lo colse il 2 giugno 1983dopo un breve ricovero presso l’Ospedale Civile di Montefiascone.

Lo ricordiamo con le parole che il vescovo, Mons. Luigi Boccadoro, pronunciò nel Duomo di Tuscania, in occasione delle esequie funebri.

“È un dolore vivo l’imprevista morte di Mons. Giuseppe Ricci, a poco più di 61 anni di età. Nonostante le diligentissime, assidue e moderne cure del Prof. Pugno, della sua équipe e di tutto il personale paramedico dell’Ospedale Falisco, egli non è riuscito a superare suoi antichi, palesi e reconditi mali. Inveterati e irriducibili, essi hanno abbattuto una vita ancora giovane che pure ci aveva dato, in questa degenza durata 17 giorni, alterni momenti di timore, di fiducia in Dio, contro ogni umana speranza, di un superamento e di una ripresa.

Egli, cosciente e consapevole, da quel buono e pio Sacerdote qual era, aveva affermato di accettare la croce di una anticipata chiamata all’eternità, croce che, in vita, lo aveva contraddistinto e privilegiato; assimilato e configurato, nella sua fisionomia spirituale e fiducia, a Cristo e che ora, in morte, lo unifica al Divino Paziente nel sacrificio del Calvario.

E così, quest’Anno Santo, che ci fa contemplare il Crocifisso, ha fatto partecipare questo nostro Confratello e la nostra stessa Chiesa, a quell’oblazione salvifica.

La perdita per la Chiesa locale è assai grave: per la giovane età; per l’Ufficio di Vicario Generale, un servizio – impegnativo, ingrato e difficile – che aveva svolto con zelo e passione; per le sue risorse di mente e di cuore; per l’opera di carità benefica, che aveva impiantato col suo amico e maestro Mons. Leopardo Venturini, a Capodimonte, e che aveva tirato avanti con corrisposta fede nella Provvidenza Divina.

La nostra partecipazione alla Passione e Croce di Cristo, in questo Anno Santo, è tanto più significativa, proprio perchè più costosa.

Ci si può chiedere: perchè la Croce? In realtà a rimediare a tutto il male, a tutto il peccato del mondo, sarebbe bastata una goccia di sangue, o una sola lacrima, anzi un solo atto d’amore dell’Uomo-Dio, perchè ogni sofferenza nella sua umanità, riceveva un valore infinito dall’Io divino cui apparteneva. Ci troviamo davanti al mistero della Croce. Sempre mistero. Mistero che, forse, può capire chi, in qualche modo, ha fatto o visto un’esperienza di dolore abbracciato con amore e per amore.

I Santi sono coloro che hanno fatto meglio questa esperienza e hanno capito di più la Croce. Ma anche certe madri, certi padri di famiglia, certi giovani fiorenti “come gigli tra le spine “, certi Sacerdoti, certe anime consacrate che si sono immolate nella penombra dei chiostri come la nostra Sr. Maria Gabriella, beatificata da Giovanni Paolo II il 25 gennaio nella Basilica di S. Paolo o come questo nostro pio Confratello a cui rivolgiamo l’estremo saluto.

Bisogna pregare il Signore di farci capire e amare il mistero della croce che sta in ogni vita, specialmente nell’ora della prova, fisica o morale che sia.

Se uno in quell’ora capisce e cerca, in silenzio, di conformarsi a Cristo. diventa non solo più cristiano, più Sacerdote, ma anche più umano. Questo è il messaggio che colgo da questa preziosa morte. Cristo Redentore è “un modello di vita per l’uomo”.

San Tommaso, quando cerca di spiegare le ragioni della Croce, insiste sull’esemplarismo che Cristo doveva e voleva offrirci perché, come raccomanda S. Pietro, seguissimo “le sue orme” (1 Pt 2,21). Tutto questo discorso e questa vita del Vicario, non spenta ma trasformata, si può riassumere così: perchè la Croce ci insegnasse a vivere, ad amare, a capire, a maturare, a essere uomini responsabili, ad abbandonarci generosamente nelle braccia del divino beneplacito. “Padre, non la mia, ma la tua volontà sia fatta. Tutta la vita di Cristo fu croce e martirio!” Così – mi aveva una volta confidato Don Giuseppe – deve essere la vita del Sacerdote. E’ la Croce a scegliermi; a noi l’abbracciarla.

Il mistero della Redenzione, che si attua nella Croce, si rinnova, si fa presente, si riattualizza sacramentalmente nel mistero dell’Eucaristia che è il mistero della Redenzione: Cristo è presente realmente sotto segni sacramentali, pane e vino.

Il mistero dell’Eucaristia e della Redenzione Mons. Ricci lo celebrò fedelmente per 37 anni. Egli, da questo vertice e da questa dolorosa esperienza, sembra dirci: – Guardate, o fratelli, che il vertice del creato, costituito dall’Incarnazione, è qui presente. Il centro dell’economia della salvezza, il mistero pasquale, è qui presente. La Croce è qui presente. La gloria di Cristo risorto è qui presente. La fonte della vita e della risurrezione universale è qui presente. Il punto d’equilibrio e d’armonizzazione dell’universo, il Verbo eterno di Dio, è qui presente. Il principio energetico “da cui tutte le cose hanno origine” è presente nell’Eucaristia, onde il prete sia servo buono, fedele, prudente, povero, obbediente, casto, come Cristo.

Erano queste le riflessioni cui inclinavo l’animo a quelle prime notizie, colme di ansia, del ricovero urgente di Mons. Giuseppe Ricci, la domenica 15 maggio a Milano (Congresso Eucaristico) e pregavo che trovasse nell’Eucaristia, come avvenne, la forza dell’accettazione della Croce.

Il Redentore presente nell’Eucaristia è infatti, un segno di speranza per il mondo in tutta l’ampiezza di dimensioni, sul piano umano, spirituale, temporale, storico, cosmico, escatologico: ma al centro di questa economia di salvezza, vi è il Sacerdote, vi è l’uomo; sempre il Sacerdote, e ogni uomo, perchè il Sacerdote e l’uomo portano in sé una capacità d’infinito e di bisogno di eterna misericordia: alla fine, dopo tanto agitarsi e tanti affanni, come lui, Don Giuseppe, “riposeremo”.

Sentiremo gli angeli, vedremo il cielo che sfolgorerà di diamanti, vedremo tutto il male della terra e tutte le nostre sofferenze annegare nella misericordia che circonderà il mondo… e la nostra vita diventerà serena, tenera, dolce, perché contemplerai, faccia a faccia, il tuo Dio e Cristo; caduti anche i sottili veli del pane, sarà tutto in tutti, così, com’è!
Il Cristo della Croce e dell’Anno Santo, dell’Eucaristia e della Redenzione, ci dà la certezza che non si tratta di un sogno e che veramente nulla si perde di ciò che con lui si è fatto e sofferto sulla terra; per questo possiamo ancora una volta ripetere che in Lui è il segno infallibile di una speranza che non può morire. La misericordia di Dio ci circonda sempre. Cristo, morto per i nostri peccati e risorto per la nostra salvezza, ci precede aprendoci la strada della vera e piena umanità.

Lo spirito di Dio ci rinnova interiormente dandoci la capacità di arrivare ad essere in questo mondo veri figli di Dio, Sacerdoti veri, che mirano solo a edificare la Chiesa. È questo il mistero del rinnovamento e della redenzione che noi cristiani possediamo e noi Sacerdoti celebriamo costantemente nella Chiesa.

Quindi, durante quest’anno, ecco le conclusioni del messaggio di questo nostro fratello: dobbiamo vivere con speciale attenzione e profondità queste realtà meravigliose e forti che sostengono la nostra vita e ci concedono la capacità e l’obbligo di illuminare gli altri uomini e di promuovere la comunione nella comunità.

Un ringraziamento vivissimo ora sento di dover porgere: al cognato e ai nipoti che mi hanno edificato per l’assistenza data a Don Giuseppe; alla signorina Pina Venturini, per la dedizione affettuosa e ammirevole data a lui per anni.

E una raccomandazione rivolgo a tutta la comunità di Tuscania; ‘di non dimenticare – come inculca l’Apostolo Paolo col suo “mementote” – chi con la vita ha predicato la fede e nella parrocchia dei Santi Martiri e poi in tutta la Città”. L’anima sua, purificata, raggiunto il possesso eterno della beatificante luce, protegga, adorando, i nostri passi verso la stessa meta. Amen”.

(Orazione funebre pronunciata dal vescovo Mons. Luigi Boccadoro il 4 giugno 1983)
Dopo qualche anno (1986) il vescovo Mons. Luigi Boccadoro nominò parroco dei SS. Martiri Don Domenico Zannetti, ma ora la parrocchia è stata unificata nell’unica parrocchia del Centro Storico e, come sappiamo, è stata affidata al vicario foraneo Don Alessandro Panzeri.

E proprio don Sandro, nell’omelia da lui tenuta in occasione del trigesimo della morte di Don Domenico Zannetti, auspicava la realizzazione di un suo “sogno”: costruire nel cimitero una cappella per tutti i sacerdoti e religiosi di Tuscania, in cui trasferire anche i resti mortali (con le rispettive epigrafi) di quelli defunti nel passato, in modo che i Tuscanesi, quando si recano al cimitero a pregare per le anime dei defunti e venerarne la memoria, possano trivare riuniti in un sol luogo gli educatori spirituali di intere generazioni di cittadin

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Mons. Stanislao Regni

Mons. Stanislao Regni nacque a Tuscania il 16 marzo 1915. Iniziò gli studi presso il Seminario Interdiocesano e li proseguì in quello Regionale di S. Maria della Quercia. Fu ordinato sacerdote il 16 luglio 1939 dal vescovo Mons. Adelchi Albanesi.

Il 1° settembre 1938 divenne titolare del beneficio corale, poi canonico del Capitolo della Cattedrale di Tuscania dal 1° ottobre 1941. Chiamato a svolgere la sua attività presso il Seminario Interdiocesano, fu prima vicerettore, dal 1939 al 1945, poi direttore spirituale, dal 1945 al 1957, interessandosi anche ad altre attività, come quella di Assistente della Gioventù Studentesca Femminile (dal 1946 al 1950) e quella di professore di religione nella Scuola Media Statale (dal 1946).

Quindi divenne Rettore della Chiesa del Gonfalone di Viterbo, restandola a sue spese e ridandole il suo splendore artistico e liturgico. Durante i lavori trovò dei bozzetti, attribuiti agli inizi del XIV secolo.
Fu insignito del titolo di Cappellano del Sovrano Militare Ordine di Malta e collaborò efficacemente alla restaurazione e riapertura al culto della storica chiesetta viterbese della Madonna della Carbonara.
Nel giugno 1964 Il papa Paolo VI, su proposta del vescovo Mons. Adelchi Albanesi, lo nominò Cameriere Segreto Soprannumerario.

Abbonato ad un quotidiano, vinse una FIAT 600, che donò al vescovo.
Per moltissimi anni divenne il Cappellano del Collegio S. Giovanni e, contemporaneamente collaborò presso la parrocchia di S. Maria Nuova. Dal settembre 1968 (e fino alla morte) fu eletto Primicerio del Capitolo della Cattedrale tuscanese.

Dal 1° gennaio 1949, diresse senza interruzione l’Ufficio Amministrativo Diocesano (U.A.D.) con competenza, diligenza ed assiduità. Dallo stesso anno fu anche consulente del Centro Italiano Femminile (C.I.F.).

Fu anche delegato Regionale della F.A.C.I. e Direttore diocesano della Pia Unione dell’Apostolato della Preghiera e Assistente del Movimento dei “Focolarini”.
Si prodigò nell’aiuto di qualche ragazzo povero residente nei pressi della Chiesa dl Gonfalone, con aiuti finanziari e con lezioni private.

Quando cessò l’obbligo di usare la croce pettorale d’oro, la fece fondere con la catena, pure d’oro, per farne diverse medaglie con l’effigie della Madonna, donandole in diverse ricorrenze.
Seppe essere custode fedele ed integerrimo del patrimonio materiale delle due diocesi di Viterbo e Tuscania; così pure portò sempre ad attuazione la volontà di coloro che, attraverso i legati testamentari, avevano lasciato beni immobili alla Chiesa. Morì improvvisamente, all’età di 57 anni, il 9 maggio 1972.

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Mons. Giovanni Copponi

Mons. Giovanni Copponi

Mons. Giovanni Copponi nacque a Tuscania il 21 novembre 1881. Fu ordinato sacerdote nel 1904. Insegnò greco, latino e francese nel locale seminario. Fu vicario generale e primicerio del Capitolo della Cattedrale dal 1921 fino alla morte.
Nel 1926 venne nominato membro della “Commissione Interdiocesana per la tutela e l’incremento dell’Arte Sacra” insieme al concittadino Cav. Giuseppe Cerasa.
Morì a Tuscania a 74 anni il 12 dicembre 1955. Così fu commemorato nella “Rivista Ecclesiastica” del febbraio 1956: “Nella tarda sera del 12 dicembre 1955, per repentino malore, chiudeva serenamente la laboriosa giornata sacerdotale, Mons. Giovanni Copponi, benemerentissimo Vicario Generale e Primicerio della Cattedrale di Tuscania. Al funerale partecipavano S. E. Mons. Vescovo Adelchi Albanesi, una larga rappresentanza del clero di Viterbo e moltissimi fedeli”.

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Mons. Leonardo Arieti

Mons. Leonardo Arieti nacque a Tuscania il 7 agosto 1877 da Secondiano Arieti e Beatrice Gentili. Fu ordinato sacerdote il 2 settembre 1902.
Per quasi tutta la prima metà del Novecento, ha seguito con diligenza ed impegno i giovani che frequentavano il Ricreatorio S. Luigi, fondato dal Conte Enrico Pocci, istituendo per loro una scuola di musica, di pittura e di artigianato in genere: dalla scuola di don Leonardo sono usciti personaggi come Amedeo Cerasa e Raffaele Eusepi (nel campo musicale), Giuseppe Cesetti e Renato Moretti (nel campo della pittura), ma hanno appreso da lui i primi rudimenti tanti giovani, divenuti poi provetti artigiani nell’arte del legno e dell’edilizia, come l’ing. Angelo Centolani.

Nel febbraio 1940 divenne Arciprete del Capitolo della Cattedrale in Tuscania, succedendo a Don Giuseppe Onofri. In cattedrale Don Leonardo curò con particolare attenzione i ragazzi del “Piccolo Clero”, addestrandoli a servire nelle cerimonie religiose.

Ormai avanti con gli anni, si ritirò in casa, ma non rimase inoperoso, perché divenne il confessore di numerosissime persone, sempre disponibile dal mattino alla sera nel suo oratorio domestico, dove sacerdoti e semplici fedeli accorrevano per consigli e la direzione spirituale. Era stimato come Sacerdote pio, mite, cordiale, accogliente. Il papa Paolo VI lo nominò Cameriere Segreto.

Ormai novantenne si ritirò nella Casa del Clero a Santa Maria di Nèrola (Roma), chiamata dal vescovo diocesano Mons. Luigi Boccadoro “Casa benemerita, quasi una zona pastorale per il rilevante numero di Sacerdoti qui ospitati ed assistiti con amore e perizia dalle benemerite Suore di S. Giuseppe di Cuneo e dai Direttori, a cominciare da Mons. Alberti che ne fu il primo”.

Mons. Boccadoro si recava di tanto in tanto a Nèrola a far visita ai suoi sacerdoti anziani, intrattenendosi a lungo con Mons. Leonardo Arieti, che morì il 7 marzo 1972, all’età di quasi 95 anni.

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Mons. Leopardo Venturini

(a cura del prof. Giuseppe Giontella)
Mons. Leopardo Venturini nacque a Tuscania il 17 agosto 1911. Nerl 1923 entrò nel Seminario di Tuscania. Nel 1927 fu mandato a proseguire gli studi liceali e teologici presso il Pontificio Seminario Leoniano di Anagni. Nel 1930 conseguì la laurea in filosofia. Nel 1933 si trasferì presso il Pontificio Seminario Regionale della Quercia, dove terminò gli studi di teologia e venne ordinato sacerdote il 18 marzo 1934 dal vescovo Mons. Emidio Trenta.

Egli seppe dividere con lo stesso zelo la sua vita fra l’insegnamento di filosofia nel Seminario della Quercia (dal 1935 al 1962) e l’attività sociale in Tuscania, Viterbo e Capodimonte.

A Tuscania nel 1947 fu assistente del Centro Italiano femminile (C.I.F.) e contemporaneamente organizzò le prime colonie estive per bambini a Capodimonte e a Tarquinia. Divenuto Delegato regionale delle A.C.L.I., riuscì a mettere insieme a Tuscania una cooperativa di muratori, che costruirono i palazzi di Via Cerasa.

Nel 1951 progettò la creazione di un Istituto a Capodimonte, e pose la prima pietra in un’area che si affaccia sulla riva del lago; ma soltanto nel 1961 Don Leopardo potè realizzare il suo sogno, inaugurando l’Istituto S. Cuore, dove sono passati numerosissimi ragazzi provenienti dalle province laziali e dalle regioni limitrofe.

“Fu un apostolo convinto della devozione al Sacro Cuore – scriveva Mons. Giovanni Antonazzi nel 1968 -; fu zelantissimo della consacrazione personale: dal Sacro Cuore ebbe segni tangibili di favore in momenti delicati e critici. E al Sacro Cuore volle dedicata l’ultima sua realizzazione, la più evangelicamente genuina, perché diretta ai piccoli e per di più sofferenti. Di questa provvidenziale opera trovo nella corrispondenza un solo discreto accenno (in una lettera del 20 dicembre 1961) “Non so se hai saputo che, qui a Capodimonte, ho aperto un Collegio per ‘ritardati scolastici’. Speriamo che almeno questa esperienza vada bene (per ora la dirigo personalmente)”. Capodimonte divenne un “fuoco” irradiatore di luce e di calore umanissimo e soprannaturale. Il Signore aveva preso in parola il desiderio e il dono di Don Leopardo, e lo portò davvero sulle “montagne altissime”, ma ve lo portò alla maniera sua, a quella terribile maniera del suo amore, che – è stato detto drasticamente – non è “dolce” se non per i santi o per coloro che non sanno quello che dicono. È il prezzo che costano le scalate di grado superiore. Capodimonte si trasformò in altare, ove egli – con Cristo – fu sacerdote e vittima. Fu il monte dalla sua trasfigurazione, non gloriosa, ma dolorosa, eppure soffusa di cristiana letizia, che si diffondeva allargandosi come il cerchio dell’onda sul lago antistante. In un momento di sconforto, una volta, gli dissi: fatti animo, vecchio mio, un giorno su questa tua cattedra vale presso Dio più dei trent’anni sulla cattedra di filosofia. Non rispose, non poteva quasi più farsi capire. Ma quei suoi occhioni limpidi e luminosi sfavillarono, ed egli annuì col sorriso più dolce. A quanti lo sappiamo e sentiamo vivo in mezzo a noi non sarà possibile dimenticare la luce di quegli occhi e la dolcezza di quel sorriso. Ed è grande grazia”.

La vita di Don Leopardo fu poema sacerdotale, a cui attinsero numerosi alunni, confratelli, laici. Non cessò di diffondere fede, speranza, amore, anche quando, colpito dalla grave malattia, era costretto a parlare del suo Dio con un filo di voce attraverso un microfono. La sua memoria è rimasta viva tra i suoi colleghi d’insegnamento e tra i suoi numerosi alunni.

Canonico teologo del Capitolo della Cattedrale per molti anni, il vescovo Mons. Adelchi Albanesi lo nominò prima delegato vescovile (nomina del 1° gennaio 1956), poi vicario generale dal 1962.

Il Papa lo insignì del titolo di Cameriere Segreto.

Nel dicembre 1966, ormai gravemente malato, lasciò la direzione dell’Istituto S. Cuore e si ritirò a Tuscania, dove morì a Tuscania il 3 agosto 1967.

Ed ecco dei ricordi, espressi da alcune delle numerosissime persone che l’hanno avvicinato; sono tratte da un volume di poesie di Don Leopardo, pubblicato a cura di Mons. Giovanni Antonazzi, l’anno successivo alla sua morte.

Il Senatore Giulio Andreotti lo ricorda così:

“Egli è vivo nella nostra memoria, non per l’uno o per l’altro incontro che avemmo con lui, ma per molto di più. Certo, il ricordo più lontano — poco dopo la fine della guerra — lo ricollego alla prima visita al Circolo ACLI di Tuscania. Si muoveva con discrezione, ma con intuitiva autorità tra quei lavoratori, tutti intenti ad annaffiare con l’ottimo vino del posto le partite a carte nell’accogliente Circolo. Mi fece, in mezzo a quei tavoli chiassosi, l’impressione di un gigante buono ed è stata una sensazione che ho rivissuto tutte le volte che l’ho avvicinato. Si può dire, senza indulgere minimamente a retorica, che man mano che le forze fisiche lo abbandonavano – ed è stato un Calvario lunghissimo e pietoso – diventava più fulgente la sua personalità di padre e di educatore. Nel rientrare a Roma dopo una sosta a Capodimonte – nell’autunno del 1965 – mi venne in mente il passo biblico della sufficienza di un uomo giusto per scongiurare dall’orizzonte collettivo terribili mali. Monsignor Leopardo Venturini era più che un uomo giusto. Ma è inesatto dire era…”

Mons. Primo Gasbarri, vescovo di Grosseto, collega d’insegnamento al Seminario della Quercia, lo ricorda allegro e chiassoso nell’appartamento riservato ai docenti:

“Non ho bisogno di avvertire chi conobbe da vicino don Leopardo che, se egli fu filosofo, non fu, per questo, fuori della realtà e della concretezza, astratto, nascosto dentro il suo pensiero. Era invece comunicativo, entusiasta, lietamente chiassoso a volte. Il corridoio dell’appartamento, ove abitavano i professori del seminario regionale, risuonò dei canti e delle esplosioni erompenti dall’anima di don Leopardo, portatore di serenità e di letizia nella cerchia dei colleghi. Chi lo avvicinava era conquistato da lui. La sua parola era illuminata dallo splendore degli occhi intelligenti e vivi, piacevole e condita di facezie argute. Soprattutto sentiva profondamente l’amicizia. Oltre che maestro, fu amico dei suoi alunni, e non soltanto di essi, di un’amicizia fedele, disinteressata, prodiga dei tesori della sua intelligenza e del suo cuore. La speculazione filosofica lo aveva lasciato sacerdote; tutto in lui era in funzione del suo sacerdozio e della missione sacerdotale. Senza questo riferimento non potrebbe comprendersi appieno il magistero di don Leopardo nella scuola, nell’apostolato, nella lunga malattia, nella morte. Il filosofo, nella piena libertà della ricerca, può essere, senza limitazioni e compromessi, come fu don Leopardo, vero maestro e autentico sacerdote”.

Mons. Francesco Zarletti, suo alunno, poi professore di lettere al ginnasio del Seminario, lo ricorda così:
“Di Don Leopardo, professore di filosofia, ricordo soprattutto il sorriso; un sorriso buono, quasi materno: quello che viene sulle labbra, quando si sanno tante cose, quando soprattutto si è arrivati a sapere che cosa è la vita. Noi alunni lo sentivamo questo, e l’animo non poteva fare a meno di confidarsi e rifugiarsi in lui. Non ci dava appena delle cognizioni. Ci dava il cuore: un cuore che l’intelligenza viva, il sofferto pensiero, la preghiera umile ed assidua rendevano squisitamente sensibile ed aperto a ogni umana comprensione. Era la sua, vorrei dire, non una filosofia di andata, ma di ritorno, ritorno sempre caro ed atteso, che ci portava in dono le verità ultime e definitive della vita: amare il Signore ed essere buoni. Lo ricordo poi disteso sul suo seggiolone, dove la malattia lo aveva inchiodato come in croce. Non poteva compiere il benché minimo movimento. Negli ultimi mesi nemmeno a parlare riusciva. Ma a sorridere sì. Il sorriso gli era rimasto uguale. E quel sorriso, fatto di pianto per sé, di bontà per gli altri, di fede e di offerta per il Signore, io l’ho come il suo testamento: quello veramente ultimo, che si fa in silenzio, quando tutte le parole sono state dette”.

Mons. Rodomonte Galligani, collega nell’insegnamento, quando morì l’amico Don Leopardo, gli dedicò un bellissimo carme (dove lo chiama “Maestro”). Riportiamo soltanto la strofa finale:

Pensavi, Maestro, che in una bellissima notte,
trapunta di stelle, ondeggianti sul lago increspato,
leggera leggera su te si posasse una mano
e a te ridonasse le forze e l’antica virtù.
Attesa fallace ed inganno. E tu invano pregasti
che sulle tue carni dolenti scendesse un sollievo,
o soffio di vento, che a te temperasse l’arsura.
Il seme opulento marciva. E morì tra le zolle,
ma proprio dal morto frumento spuntava il frumento,
in esili piante che il vento scuoteva e piegava;
ed ecco la messe ondeggiare e tinnire nel maggio,
e il duro cipresso si cambia nel tiglio odoroso.
Sei morto, Maestro. Ma quanto sei vivo nei cuori!
La fede dapprima lottata, poi lieta e serena;
la fine prevista, accettata con salda coscienza;
e il calice pieno di amaro, amarissimo vino,
bevuto ogni giorno, non sorso per sorso, ma a stille,
che spinta, che grazia per me, così pigro e indolente;
che scossa; che invito a portar la mia croce e adorare!
Così fu per me, così fu per cento, per mille:
è questa la turgida mèsse che il seme portò.

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