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(a cura del Prof. Giuseppe Giontella)
Mons. Domenico Brizi nacque a Tuscania il 21 gennaio 1891. Iniziò gli studi liceali nel Seminario di Viterbo e li terminò presso il Seminario Romano. Prestò il servizio militare nel 1912 (ebbe il grado di caporale), ma venne richiamato durante la Prima Guerra Mondiale. Fu ordinato sacerdote a Roma il 23 febbraio 1918 presso il Pontificio Seminario Romano. Conseguì poi la laurea in teologia (1918) e la laurea in utroque iure (1921).
Tornato in diocesi, fu nominato parroco di S. Giovanni Decollato (1921), chiesa senza parroco ed in stato di semiabbandono dopo che quello precedente, Don Alessandro Aureli, se ne era andato via nel 1919.
Nella parrocchia di S. Giovanni dette prova di zelo sacerdotale per circa 12 anni: fece rifiorire l’Associazione di Azione Cattolica e si dedicò alla direzione spirituale delle anime.
In una annotazione del 17 agosto 1921, appena nominato parroco, racconta così i suoi primi atti “pastorali”: “…una chiesa senza parroco da due anni che cosa può essere? Eppure confesso che temevo di peggio, non nella pulizia, ma negli arredi sacri: il necessario c’è, il decente abbonda, il discreto ed il decoroso non manca, il lusso difetta…; ma la pulizia! Io credo che Aracne non abbia tessuto tante tele in tutto il tempo della sua vita! Confessionali, finestre, angoli: tutto un mirabile e perfettissimo lavoro; l’occhio della facciata della chiesa ne aveva di superbe e venerabili per antichità, che l’avevano ricoperto quasi totalmente, come di serico velario, lasciando, da un vetro rotto, un passaggio ad una coppia di piccioni, che avevano il loro maschietto fra l’organo e la vetrata…”. Le prime pulizie “fruttarono” due carrette di rifiuti!
Dopo qualche giorno di riposo, Don Domenico e le sue aiutanti ripresero il lavoro con l’asportazione della stessa quantità di immondizia, ottenendo questo risultato: “…la chiesa, offuscata da un polverone fitto e poco gradito, dava, credo, un gran sospiro di soddisfazione, come quello che si manda al ritorno dalle gite dopo essersi lavati, e come quello che mandai io e le mie quattro aiutanti, dopo esserci digerita una buona scorpacciata del tenue elemento…”
Alla sua attività, alla sua geniale iniziativa si deve specialmente la ricca decorazione del presbiterio della sua chiesa parrocchiale. Nel 1923 organizzò l’incoronazione solenne dell’Addolorata alla quale “ha donato – si legge nel suo testamento – la croce pettorale d’oro, tempestata di topazi e smalti, desiderando che la tenesse vicino al suo cuore”.
Nel 1933 fu tra coloro che aprirono il nuovo Pontificio Seminario Regionale di S. Maria della Quercia, di cui fu il primo rettore. Qui egli seppe imprimere al Seminario Regionale una fisionomia chiara, precisa, inconfondibile, creando un’atmosfera di gioiosa serenità. Le sue doti singolari attirarono l’attenzione delle supreme autorità ecclesiastiche, che, il 4 agosto 1939 lo chiamarono a Roma per ricoprire l’incarico di Rettore del Collegio Urbano de Propaganda Fide. I seminaristi della Quercia lo salutarono con molto rimpianto e gli donarono due quadri: quello della Regina Apostolorum e quello della Madonna della Quercia.
Sei anni dopo, il 23 gennaio 1945, Mons. Giovanni Antonazzi portò ai seminaristi la notizia che il loro primo Rettore era stato nominato vescovo di Osimo e Cingoli. Mons. Brizi scelse, come giorno della sua consacrazione episcopale, l’11 febbraio, festa della Madonna di Lourdes “e per me – annotò nella sua agenda – festa della Madonna della Fiducia”.
Nella prima lettera pastorale, scritta a Roma in quel 23 febbraio, indirizzò al Clero e al Popolo di Osimo e Cingoli, di cui stava per diventare pastore, queste parole: “…Al Collegio Urbano di Propaganda Fide, ove sono stato Rettore dal 1939 a tutto il 1944, fra alunni di molte nazioni ma di un solo cuore; agli ex-alunni della Quercia, tra i quali fui Rettore dal 1933 al 1939 e tra i quali ritorna sempre il mio cuore; ai parrocchiani di Tuscania, dove dal 1921 al 1933 spesi i primi fervidissimi anni del mio sacerdozio; ai superiori, ai compagni di lavoro, agli amici del sacerdozio, alla schiera folta di figli spirituali, ai parenti amatissimi, ai luoghi dove sono nato, dove sono cresciuto, dove fui educato, alla città mia natale, della quale sono il primo cittadino divenuto vescovo, a tutto io ho per voi rinunciato, tutto ho per voi offerto, tutto ho voluto porgere al vostro amore – come in una sintesi – nella croce bianca in campo rosso della mia Tuscania, che sormonta il mio stemma: questa croce dica a quelli che io lascio che non li dimentico: e che l’amore in Cristo, anche salendo la croce, non lascia nessuno, anzi è più grande; dica a voi, presso i quali vengo, che l’amore in Cristo non si sgomenta di nulla, appunto perché è sulla croce con Cristo, e nulla e nessuno potrà mai non farvi amare. Quelli che io lascio e quelli che io trovo, nel mio povero cuore, faranno una sola famiglia come fanno una sola gioia…”.
Mons. Domenico Brizi governò con amore ed abnegazione le due diocesi. Durante i suoi 19 anni di episcopato fu un buon pastore per tutti, dai personaggi importanti al più umile cittadino. Chiuse la giornata terrena nell’Ospedale Civile di Osimo l’11 febbraio 1964. Per sua volontà il suo corpo è sepolto nella cripta del Duomo di Osimo.
Ad un anno dalla morte, così scriveva il Direttore del periodico “Vita Diocesana – Bollettino delle Diocesi di Viterbo e Tuscania” (Gennaio-Febbraio 1965): “Mons. Domenico Brizi indubbiamente fu una lampada posta dalla Provvidenza al di sopra del livello ordinario, affinché fosse di esempio, ed anche di monito, ai confratelli nel sacerdozio e particolarmente ai confratelli più giovani”.
Tra gli episodi curiosi, ne ricordiamo qualcuno, raccontato dalla nipote Giulia Palozzi, che ha vissuto la sua adolescenza ad Osimo: “Non so quali preoccupazioni e sofferenze lo zio abbia dovuto sopportare nei rapporti coi suoi sacerdoti, perché non lasciava trasparire nulla. Intuivo che qualche cosa non andava quando con qualcuno di loro lo zio parlava mentre facevano delle ‘passeggiate’ interminabili sotto le colonne [anticamera d’attesa, in episcopio]. E mi dispiaceva che tra le sue pecorelle ci fosse qualche discoletto. Al mio esame di adolescente si presentavano diversi esemplari nella ‘clero-fauna’. Un prete amavo soprattutto: don Ido. Di lui non ricordo il cognome. Se non sbaglio, era un parroco di campagna, e questo lo deducevo dal modo di presentarsi in episcopio: impolverato dopo un viaggio in bicicletta. Bussava alla porta di servizio (della cucina) e con il baschetto in mano chiedeva con accento marchigiano che rendeva la domanda più affettuosa: “C’è babbo?”. Il ‘babbo’ era il vescovo. Anche questo sta a dimostrare che lo zio era amato soprattutto dai semplici accomunati a lui dallo spirito evangelico”.
Era difficile andare a fargli visita ad Osimo senza essere amabilmente costretti a fermarsi a cena e a dormire. Diceva: “L’episcopio è così grande: a che serve, se no, avere tanto posto?”
Racconta Giulia: “Spesso in Osimo c’erano ospiti, i più disparati. Più volte il vescovo avvisava all’ultimo momento che qualcuno sarebbe rimasto a tavola con noi. Zia Teresa era bravissima nell’affrontare questo problema improvviso. Tutti erano benvenuti in egual misura: dagli operai del mobilificio Moretti di Tuscania, che portavano mobili ad un rivenditore dì Osimo, ai vari oratori e predicatori, agli amici. Con i primi era contento perché poteva avere notizie di qualche tuscanese, poteva esprimersi, capito, con qualche parola in dialetto e soprattutto perché, offrendo ospitalità in episcopio, faceva loro risparmiare la ‘trasferta…”.
Mons. Brizi era assai umile.: “Non si vergognava – scrive Mons. Antonazzi – di essere “figlio di una fornaia e di un uomo che andava a far legna”. Egli fu veramente homo rectus, simplex ac timens Deum: una semplicità degna, in alcuni episodi, dei Fioretti di S. Francesco. Come quando, ad esempio, già vescovo, colse un bel ramo carico di ciliege dall’albero del suo giardino, e lo portò a una bambina malata, che ne aveva espresso il desiderio. Passando tranquillamente attraverso la città di Osimo, nascondeva molto relativamente il dono sotto il soprabito”.
Ancora dai ricordi di Giulia: “Lo chiamavo ‘zio prete’, perché il nome vescovo me lo rendeva più lontano. Inoltre, lo zio era rimasto parroco: rispetto al periodo di Tuscania, erano semplicemente aumentate le parrocchie da curare. Era facile incontrano per le strade di Osimo, perché andava a piedi. Non aveva automobile né autista”.
Amava anche gli animali. Una sera, sempre ad Osimo, recitava il rosario in cappella con alcuni ex alunni del seminario della Quecia suoi ospiti, che erano venuti a fargli visita. All’improvviso entrò il suo bel gatto. Ed egli, con tutta naturalezza, lo adagiò sul cuscino dell’inginocchiatoio e seguitò a sgranare le avemarie, mentre con l’altra mano accarezzava quella bestiola creatura di Dio.
A proposito di questo gatto, Giulia racconta: “C’era in episcopio un gatto persiano. Era sempre in cucina, quando il vescovo vi faceva colazione. Ogni tanto lui deponeva per terra parte della colazione per il gatto. La bestiola era motivo di gioia per il vescovo e di cruccio per mia sorella Ada, perché spesso lasciava in giro un po’ del suo lungo pelo e qualcosa di peggio, rientrando, per giunta, dal giardino. Alle giuste rimostranze di Ada, lo zio, che di solito era rispettoso delle fatiche altrui, rideva divertito. Dei gatti, però, non sopportava i tristi miagolii notturni: per farli tacere teneva sul davanzale della finestra della camera una serie di sassolini, un vero arsenale, e glieli tirava…”.
A venti anni dalla morte, nel febbraio 1984, si svolse una toccante commemorazione organizzata a cura del “Centro Anziani” di Tuscania, frequentato da molti cittadini che avevano conosciuto Mons. Brizi ed avevano mantenuto con lui stretti vincoli di amicizia. Tra questi, ricordo l’intervento di Angelica Cesetti, che commosse l’uditorio raccolto in profondo silenzio.
Nel 25° anniversario della morte (11 febbraio 1989) così lo ricordava Mons. Nicola Pavoni, che da giovane era stato spesso ospite del suo vescovo Mons. Brizi: “…Io, uno dei sopravvissuti [della diocesi di Osimo], ancora pellegrino sulla terra, con una sottile nostalgia dei tempi andati, mi porto dietro con tenerezza ossessiva l’immagine di quel “vecchio maremmano”… Era paziente nell’ascoltare la gente. Se tu andavi da lui e parlavi di Dio e dei tuoi problemi spirituali, per te dimenticava di esistere…
Subiva con pazienza le mie infinite violenze verbali. Mi ascoltava “serioso”. Poi, se riuscivo a prendere fiato, un sorriso, uno schiaffo come una carezza e mi mandava via sibillando (sic): “Capoccione!” Ed io sentivo che il suo silenzio mi parlava dentro.
Viveva da povero. L’acquacotta ed il pancotto, a stare con lui, sembravano bistecche e cosciotti d’abbacchio. Il suo vestire preciso era frutto delle invenzioni quotidiane delle mani magiche di Teresa [Volpini, la cognata, moglie di Giacomo]. Il superfluo era sconosciuto. Il necessario qualche volta era in debito d’ossigeno, ma ero felice con lui!
La preghiera di notte, nella cappella dell’episcopio: davanti al Santissimo, mi chiedeva di parlare forte con Gesù. Io non sapevo cosa dire. Cadevo dal sonno; ma era bello stare lì, nella tremula luce della lampada ad olio…
Era uno stacanovista. Non c’era un attimo di respiro nella sua giornata; e quando tutti si andava a letto, lui iniziava i “notturni della corrispondenza”: fino alle tre di notte scriveva lettere (…), brevi, incisive, soprannaturali. Poi, di giorno, i sacerdoti che venivano da lui dovevano sopportare infiniti sbadigli. Io mi arrabbiavo, e lui mi rispondeva che “i notturni”, come io li chiamavo, erano un servizio alle anime, e gli sbadigli un motivo di umiliazione.
Caro vecchio maremmano, chi ha avuto la fortuna di conoscerti non potrà mai più dimenticarti. Adesso metti la mano sul mio “capoccione” e benedicimi come allora. Arrivederci, vecchio mio!
Mons. Nicola Pavoni”.
(Le notizie sono state attinte principalmente dalla biografia che il suo amico e collaboratore Mons. Giovanni Antonazzi scrisse nel 1984 con il titolo “Domenico Brizi – Prete e Vescovo”; così pure abbiamo reperito alcune notizie nella pubblicazione “Ricordo del solenne ingresso del vescovo Mons. Domenico Brizi nella chiesa cattedrale di Osimo”, e nel mensile di vita osimana “L’Antenna Civica” del febbraio 1964 e del marzo 1989).
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Nacque a Roma il 4 giugno 1912 da Enrico e Agnese Colacicchi: prese dal padre l’intraprendenza per le scelte coraggiose della vita e dalla madre l’umiltà d’animo ed un certo, naturale riserbo.
Ultimo di cinque figli, fu abituato fin dagli anni della fanciullezza alle prove della sofferenza: alla morte del fratello Cesare, Filippo aveva 10 anni, e ricorderà per tutta la vita
il dolore profondo dei genitori per la grande disgrazia, quasi non osava parlarne, anche a molti anni di distanza. Studiò a Roma in diversi Istituti privati, poi al collegio Nazareno dove compì il liceo classico nel 1930.
La sua attività di quegli anni era volta alla vita in famiglia, agli svaghi di sport e di amicizie: si recò all’estero per qualche viaggio di cultura; il suo carattere serio e l’animo sensibile lo portavano a vivere con attenzione la fede, appresa profondamente in famiglia ed anche per la premurosa guida di DON VIRGILIO VANCELLI che radunava i giovani delle famiglie romane al “COLLEGIUM TARSICII” animandoli al culto dell’Eucarestia. La sua passione per l’arte guidò la scelta degli studi universitari: si iscrisse così alla facoltà di Architettura di Roma, dove si laureò nel 1935: quindi il servizio militare, che lo vide sottotenente del Genio tra il 1936 e il 1937. Insomma, una seria preparazione, che, per gli studi e le diverse attività, era quella di una persona destinata alla vita civile, ed, invece, la chiamata del Signore si era già fatta sentire: quando egli ne parlava, ormai anziano, diceva sempre che erano stati gli anni universitari ed il periodo militare i tempi in cui si era accorto di essere naturalmente portato al Sacerdozio. E così, sostenuto dal suo padre spirituale, nel 1938, decise con gioia di accantonare la sua preparazione civile”, per mettersi a studiare da sacerdote, entrando nel Pontificio Seminario Romano. Grande fu la commozione fra i familiari che non si aspettavano questa novità, ed altrettanto improvvisa fu la notizia per molti suoi amici ed amiche, che lui frequentava abitualmente: per molti di essi, fu un egnale di fede, così che per anni seguiranno le tappe di Don Filippo, facendogli festa ogni qualvolta ebbero occasione di incontrarlo.
La preparazione in seminario, poi gli studi all’ACCADEMIA: in tutto altri otto anni di “Scuola”, che, come egli scherzando affermava, si sommavano a quelli degli studi già compiuti, risultando in totale ben 26! Fu ordinato sacerdote nel 1943: non fu inviato all’estero perché già sofferente all’udito e fu chiamato invece in SEGRETERIA Dl STATO,
tra i collaboratori del Cardinale Tardini. La sua vita pastorale quasi contemporaneamen-te iniziò tra i ragazzi, come Viceparroco di San Salvatore in Lauro e frequentando l’Oratorio 5. Luigi, a Tuscania: aprì a Roma una sede del “Collegium Tarsicii”, dove Settimanalmente attendeva i giovani, figli di suoi amici, per la 5. Messa domenicale, recandosi talvolta con loro a celebrare alle Catacombe, come già aveva fatto, d~ giovanetto, accanto a Mons. Valcelli.
Con la elezione di GIOVANNI XXIII, nel 1958, fu nominato CAMERIERE SEGRE TO Dl SUA SANTITA’: erano in quattro prelati che si avvicendavano accanto al Papa per tutto il giorno, e così ebbe modo di gustare le virtù di quel Pontefice, che sicuramente arricchì di fede e di carità l’animo di Don Filippo; quante volte ricordava i vari momenti di confidenza e di esempio che ebbe dal Papa: alla comprensione degli altri, alla pazienza per quel che di non esatto si diceva in giro, alla perseveranza nel guidare i giovani in difficoltà…: furono per lui anni di grazia che lo maturarono per l’Episcopato.
Così, nel luglio 1961 fu consacrato VESCOVO, con l’incarico di essere uno dei quattro Ausiliari del Cardinale Vicario di Roma: a lui fu assegnato il settore di Roma Ovest. Iniziò così un periodo di intensa e nuova attività; lavorò alle Visite Pastorali e, nell’ambito dei differenti settori economici e sociali delle diverse parrocchie di Roma affrontò i molteplici problemi che gli venivano presentati, illustrando con chiarezza il suo pensiero, spiegando gli insegnamenti della Chiesa, ma soprattutto mettendo in atto la comprensione, la dolcezza d’animo: erano gli anni del Concilio Vaticano li, alle cui sedute Don Filippo prese parte attivamente, anche con l’incarico di illustrare i documenti redatti dal Cardinale Vicario, suo diretto superiore: gli animi dei cattolici erano in quegli anni mossi da diverse componenti di rinnovamento, ed arduo era il compito di chi doveva indirizzare, consigliare, temperare le incomprensioni e le differenze di opinioni lì suo animo di apostolo si fece molto apprezzare tra i gruppi del-. l’U.N.l.T.A.L.S.I., dove presiedette per vari anni: partecipò ai numerosi pellegrinaggi annuali a Lourdes e a Loreto, portando conforto ai malati ed unendosi ad essi in amicizia, nella sofferenza che anch’egli provava personalmente, per la sordità che avanzava.
Il problema delle VOCAZIONI SACERDOTALI occupava gran parte della sua attività di pastore: diresse per vari anni l’Opera delle Vocazioni, operando ai vari livelli la sensibilizzazione per questo importante problema della chiesa: promuoveva incontri, parlava a molti gruppi diocesani, ma soprattutto credeva e stimolava ad usare un’arma formidabile, un metodo com’egli diceva, infallibile: ….PREGARE…. Periodicamente, poi, si recava, a Tuscania, cui era legato da grande affetto e provava gran piacere nell’ami¬cizia con la gente, nell’ascoltare i problemi delle organizzazioni dei giovani, nel continuare con la preparazione alle CRESIME l’attività dell’Oratorio San Luigi, fondato dal padre.
Furono anni di intensa attività, ma la malattia progrediva, la sordità lo staccava inesorabilmente dal contatto con la gente, riusciva sempre meno ad ascoltare ed a parlare in pubblico: non poté più ricevere confessioni e si sentiva chiamato a rinunciare alle diverse responsabilità di conduzione pastorale. E così, intorno agli anni ‘80, lasciò l’incarico di Vescovo Ausiliare, fu nominato CANONICO DELLA BASILICA VATICANA, ed iniziò per lui il periodo della pensione.
Continuò, però, instancabile a tenere contatti con le scuole, coi gruppi di malati, di seminaristi, coi ragazzi ormai sposati che aveva guidato con il consiglio e l’amicizia: teneva con essi una corrispondenza fittissima proprio per la sua sensibilità di apostolo, sostenitore dei sofferenti e dei giovani.
In quegli anni realizzò a Tuscania, a sue spese, la SCUOLA MATERNA CONTE ENRICO POCCI e vendette i suoi beni per lasciare ai giovani il nuovo complesso ORATORIO SAN LUIGI CON PALESTRA: volle realizzare la continuazione del “CIRCOLETTO” che suo padre Enrico aveva fondato nel 1902 e che tante generazioni di tuscanesi avevano frequentato e ricordarono con nostalgia.
Non vide però il compimento dell’opera, perché morì a Roma il giorno 11 dicembre 1991.
IL TESTAMENTO DI DON FILIPPO:
Nel nome del Padre, del Figlio e delle Spirito Santo
io, Filippo Pocci, Vescovo titolare di Gerico, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali dispongo che alla mia morte i beni immobili di mia proprietà abbiano la seguente destinazione:
• alla mensa Vescovile, ora Ente diocesano di Viterbo (e Tuscania):
• il fabbricato di mia proprietà sito in Tuscania, via Consalvi e via Verdi, con annessa Sala Teatro e terreno scoperto detto Palestra;
• il fabbricato sito in Tuscania, via S. Maria Liberatrice n° 6 e 8, denominato “Casacce”;
• il terreno annesso al fabbricato “Casacce” con ingresso in via S. Maria Liberatrice;
• il “Pontificium Opus “S. Pietro Apostolo pro Clero Missionum” (presso S. Congregazione De Propaganda fide);
• il fabbricato in via del Riuscello, con sottostante magazzino in via Oberdan;
• i locali a piano terreno del fabbricato sito in via Campanari, via XII Settembre e via Lunga.
Tali mie disposizioni testamentarie hanno il fine di arrecare un aiuto economico per le opere che perseguono i menzionati istituti.
Se al momento della mia morte sarò proprietario di una autovettura, dispongo che essa venga assegnata all’Ente diocesano di Tuscania.
Roma, 2 Novembre 1989
+ Filippo Pocci
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