(a cura del prof. Giuseppe Giontella)
Mons. Leopardo Venturini nacque a Tuscania il 17 agosto 1911. Nerl 1923 entrò nel Seminario di Tuscania. Nel 1927 fu mandato a proseguire gli studi liceali e teologici presso il Pontificio Seminario Leoniano di Anagni. Nel 1930 conseguì la laurea in filosofia. Nel 1933 si trasferì presso il Pontificio Seminario Regionale della Quercia, dove terminò gli studi di teologia e venne ordinato sacerdote il 18 marzo 1934 dal vescovo Mons. Emidio Trenta.
Egli seppe dividere con lo stesso zelo la sua vita fra l’insegnamento di filosofia nel Seminario della Quercia (dal 1935 al 1962) e l’attività sociale in Tuscania, Viterbo e Capodimonte.
A Tuscania nel 1947 fu assistente del Centro Italiano femminile (C.I.F.) e contemporaneamente organizzò le prime colonie estive per bambini a Capodimonte e a Tarquinia. Divenuto Delegato regionale delle A.C.L.I., riuscì a mettere insieme a Tuscania una cooperativa di muratori, che costruirono i palazzi di Via Cerasa.
Nel 1951 progettò la creazione di un Istituto a Capodimonte, e pose la prima pietra in un’area che si affaccia sulla riva del lago; ma soltanto nel 1961 Don Leopardo potè realizzare il suo sogno, inaugurando l’Istituto S. Cuore, dove sono passati numerosissimi ragazzi provenienti dalle province laziali e dalle regioni limitrofe.
“Fu un apostolo convinto della devozione al Sacro Cuore – scriveva Mons. Giovanni Antonazzi nel 1968 -; fu zelantissimo della consacrazione personale: dal Sacro Cuore ebbe segni tangibili di favore in momenti delicati e critici. E al Sacro Cuore volle dedicata l’ultima sua realizzazione, la più evangelicamente genuina, perché diretta ai piccoli e per di più sofferenti. Di questa provvidenziale opera trovo nella corrispondenza un solo discreto accenno (in una lettera del 20 dicembre 1961) “Non so se hai saputo che, qui a Capodimonte, ho aperto un Collegio per ‘ritardati scolastici’. Speriamo che almeno questa esperienza vada bene (per ora la dirigo personalmente)”. Capodimonte divenne un “fuoco” irradiatore di luce e di calore umanissimo e soprannaturale. Il Signore aveva preso in parola il desiderio e il dono di Don Leopardo, e lo portò davvero sulle “montagne altissime”, ma ve lo portò alla maniera sua, a quella terribile maniera del suo amore, che – è stato detto drasticamente – non è “dolce” se non per i santi o per coloro che non sanno quello che dicono. È il prezzo che costano le scalate di grado superiore. Capodimonte si trasformò in altare, ove egli – con Cristo – fu sacerdote e vittima. Fu il monte dalla sua trasfigurazione, non gloriosa, ma dolorosa, eppure soffusa di cristiana letizia, che si diffondeva allargandosi come il cerchio dell’onda sul lago antistante. In un momento di sconforto, una volta, gli dissi: fatti animo, vecchio mio, un giorno su questa tua cattedra vale presso Dio più dei trent’anni sulla cattedra di filosofia. Non rispose, non poteva quasi più farsi capire. Ma quei suoi occhioni limpidi e luminosi sfavillarono, ed egli annuì col sorriso più dolce. A quanti lo sappiamo e sentiamo vivo in mezzo a noi non sarà possibile dimenticare la luce di quegli occhi e la dolcezza di quel sorriso. Ed è grande grazia”.
La vita di Don Leopardo fu poema sacerdotale, a cui attinsero numerosi alunni, confratelli, laici. Non cessò di diffondere fede, speranza, amore, anche quando, colpito dalla grave malattia, era costretto a parlare del suo Dio con un filo di voce attraverso un microfono. La sua memoria è rimasta viva tra i suoi colleghi d’insegnamento e tra i suoi numerosi alunni.
Canonico teologo del Capitolo della Cattedrale per molti anni, il vescovo Mons. Adelchi Albanesi lo nominò prima delegato vescovile (nomina del 1° gennaio 1956), poi vicario generale dal 1962.
Il Papa lo insignì del titolo di Cameriere Segreto.
Nel dicembre 1966, ormai gravemente malato, lasciò la direzione dell’Istituto S. Cuore e si ritirò a Tuscania, dove morì a Tuscania il 3 agosto 1967.
Ed ecco dei ricordi, espressi da alcune delle numerosissime persone che l’hanno avvicinato; sono tratte da un volume di poesie di Don Leopardo, pubblicato a cura di Mons. Giovanni Antonazzi, l’anno successivo alla sua morte.
Il Senatore Giulio Andreotti lo ricorda così:
“Egli è vivo nella nostra memoria, non per l’uno o per l’altro incontro che avemmo con lui, ma per molto di più. Certo, il ricordo più lontano — poco dopo la fine della guerra — lo ricollego alla prima visita al Circolo ACLI di Tuscania. Si muoveva con discrezione, ma con intuitiva autorità tra quei lavoratori, tutti intenti ad annaffiare con l’ottimo vino del posto le partite a carte nell’accogliente Circolo. Mi fece, in mezzo a quei tavoli chiassosi, l’impressione di un gigante buono ed è stata una sensazione che ho rivissuto tutte le volte che l’ho avvicinato. Si può dire, senza indulgere minimamente a retorica, che man mano che le forze fisiche lo abbandonavano – ed è stato un Calvario lunghissimo e pietoso – diventava più fulgente la sua personalità di padre e di educatore. Nel rientrare a Roma dopo una sosta a Capodimonte – nell’autunno del 1965 – mi venne in mente il passo biblico della sufficienza di un uomo giusto per scongiurare dall’orizzonte collettivo terribili mali. Monsignor Leopardo Venturini era più che un uomo giusto. Ma è inesatto dire era…”
Mons. Primo Gasbarri, vescovo di Grosseto, collega d’insegnamento al Seminario della Quercia, lo ricorda allegro e chiassoso nell’appartamento riservato ai docenti:
“Non ho bisogno di avvertire chi conobbe da vicino don Leopardo che, se egli fu filosofo, non fu, per questo, fuori della realtà e della concretezza, astratto, nascosto dentro il suo pensiero. Era invece comunicativo, entusiasta, lietamente chiassoso a volte. Il corridoio dell’appartamento, ove abitavano i professori del seminario regionale, risuonò dei canti e delle esplosioni erompenti dall’anima di don Leopardo, portatore di serenità e di letizia nella cerchia dei colleghi. Chi lo avvicinava era conquistato da lui. La sua parola era illuminata dallo splendore degli occhi intelligenti e vivi, piacevole e condita di facezie argute. Soprattutto sentiva profondamente l’amicizia. Oltre che maestro, fu amico dei suoi alunni, e non soltanto di essi, di un’amicizia fedele, disinteressata, prodiga dei tesori della sua intelligenza e del suo cuore. La speculazione filosofica lo aveva lasciato sacerdote; tutto in lui era in funzione del suo sacerdozio e della missione sacerdotale. Senza questo riferimento non potrebbe comprendersi appieno il magistero di don Leopardo nella scuola, nell’apostolato, nella lunga malattia, nella morte. Il filosofo, nella piena libertà della ricerca, può essere, senza limitazioni e compromessi, come fu don Leopardo, vero maestro e autentico sacerdote”.
Mons. Francesco Zarletti, suo alunno, poi professore di lettere al ginnasio del Seminario, lo ricorda così:
“Di Don Leopardo, professore di filosofia, ricordo soprattutto il sorriso; un sorriso buono, quasi materno: quello che viene sulle labbra, quando si sanno tante cose, quando soprattutto si è arrivati a sapere che cosa è la vita. Noi alunni lo sentivamo questo, e l’animo non poteva fare a meno di confidarsi e rifugiarsi in lui. Non ci dava appena delle cognizioni. Ci dava il cuore: un cuore che l’intelligenza viva, il sofferto pensiero, la preghiera umile ed assidua rendevano squisitamente sensibile ed aperto a ogni umana comprensione. Era la sua, vorrei dire, non una filosofia di andata, ma di ritorno, ritorno sempre caro ed atteso, che ci portava in dono le verità ultime e definitive della vita: amare il Signore ed essere buoni. Lo ricordo poi disteso sul suo seggiolone, dove la malattia lo aveva inchiodato come in croce. Non poteva compiere il benché minimo movimento. Negli ultimi mesi nemmeno a parlare riusciva. Ma a sorridere sì. Il sorriso gli era rimasto uguale. E quel sorriso, fatto di pianto per sé, di bontà per gli altri, di fede e di offerta per il Signore, io l’ho come il suo testamento: quello veramente ultimo, che si fa in silenzio, quando tutte le parole sono state dette”.
Mons. Rodomonte Galligani, collega nell’insegnamento, quando morì l’amico Don Leopardo, gli dedicò un bellissimo carme (dove lo chiama “Maestro”). Riportiamo soltanto la strofa finale:
Pensavi, Maestro, che in una bellissima notte,
trapunta di stelle, ondeggianti sul lago increspato,
leggera leggera su te si posasse una mano
e a te ridonasse le forze e l’antica virtù.
Attesa fallace ed inganno. E tu invano pregasti
che sulle tue carni dolenti scendesse un sollievo,
o soffio di vento, che a te temperasse l’arsura.
Il seme opulento marciva. E morì tra le zolle,
ma proprio dal morto frumento spuntava il frumento,
in esili piante che il vento scuoteva e piegava;
ed ecco la messe ondeggiare e tinnire nel maggio,
e il duro cipresso si cambia nel tiglio odoroso.
Sei morto, Maestro. Ma quanto sei vivo nei cuori!
La fede dapprima lottata, poi lieta e serena;
la fine prevista, accettata con salda coscienza;
e il calice pieno di amaro, amarissimo vino,
bevuto ogni giorno, non sorso per sorso, ma a stille,
che spinta, che grazia per me, così pigro e indolente;
che scossa; che invito a portar la mia croce e adorare!
Così fu per me, così fu per cento, per mille:
è questa la turgida mèsse che il seme portò.
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